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  Banzi
  Storie di emigranti banzesi
 
STORIE DI EMIGRAZIONE -- 1900

Edmondo De Amicis diceva che emigrare è la condanna più ingiusta per un uomo. 
Tra 1880 e il 1925 sono partiti per l'America 4 milioni di italiani: persone pieni di sogni, ma che solo qualcuno ha realizzato. Ne sono tornati solo un terzo. Gli emigranti settentrionali erano più avantaggiati perchè erano più istruiti ed erano artigiani professionisti. I meridionali invece erano in gran parte contadini e braccianti agricoli e facevano i lavori più umili, soprattutto i lucani. Salari bassi, disoccupazione, mancanza di industrie e soprattutto mancanza di attenzione da parte del governo, sono tra i fattori che hanno contribuito all'incremento dell'emigrazione meridionale e lucana. In America i contadini lucani venivano considerati degenerati, criminali, sporchi, violenti e ladri. Proprio come noi, oggi, consideriamo tutti gli immigrati che arrivano in Italia in cerca di lavoro.
Riportiamo qui di seguito il racconto di un emigrante banzese. E' tutto vero, niente è inventato...

Quando avevo 32 anni sono emigrato in Belgio a Eysden, un paese vicino a Marcinelle e a Bruxelles. Andavo a lavorare in una miniera di carbone, dove già lavorava un mio cognato con un contratto di lavoro già pronto. Prima di partire ho dovuto sottopormi ad una visita medica a Milano nell'Ufficio Emigrazione. L'ho superata, ma il mio gruppo, formato da 17 persone, era troppo numeroso. Qualcuno doveva essere scartato. Ci misero in fila davanti ad un mazzo di carte e chi pescava l'asso usciva fuori dal gruppo. La sfortuna ha voluto che proprio l'asso di bastoni toccasse proprio a me. E così ritornai a Banzi, per poi ripartire nell'Ottobre 1955 verso il Belgio. Riuscii a partire. Nella miniera di Eysden lavoravano 12.000 persone (2.000 fuori e 10.000 dentro), provenienti da tutte le parti d'Italia; c'erano greci, olandesi, francesi e turchi. La miniera era profonda 780 m. e larga 8 Km. Il mio lavoro consisteva nello staccare il carbone dalla roccia con un martello ad aria compressa. In alcuni cunicoli lavoravo persino sdraiato su un fianco. Per il caldo lavoravo a torso nudo senza mai dimenticare l'elmetto provvisto di luce che illuminava il buio sotterraneo.
La mia schiena era ricoperta di cicatrici causate dalle punte aguzze del carbone. Un medico mi chiese anche cosa fossero quelle cicatrici. Io gli risposi: "Sono tutti i baci delle pietre".
Lavoravo otto ore al giorno. C'erano tre turni: dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6. Giù in miniera portavo per pranzo un panino con mortadella e provolone e una borraccia d'acqua. Alcune volte quando non avevo più acqua potabile, avevo quella non potabile che arrivava attraverso i tubi arruginiti. Guadagnavo 5.000 lire (quattrocento franchi). Invece se si lavorava nelle gallerie profonde si guadagnava il doppio del salario (800 franchi). Ma io non ci andavo perchè era troppo faticoso e pericoloso. Quando è successa la tragedia di Marcinelle, con degli amici sono andato a vedere quello che era successo. C'era l'inferno! Non si vedeva niente, si sentivano soltanto urla e pianti di donne e bambini. Era un vero disastro.
Un giorno ero da solo in un cunicolo e dovevo muovere una trave di ferro che sosteneva la montagna. Era molto pericoloso, e così chiamai un amico e gli dissi di vedere con precisione il punto in cui mi trovavo, per potermi salvare nel caso fossi stato travolto dalla montagna. Velocemente, ma con cautela, mossi la trave, mi spostai e mi buttai a terra. Crollò tutto. Era buio pesto. Non si respirava più. Sentii la voce del mio amico che mi chiamava, io risposi che ero salvo.
Dopo circa sette anni di duro lavoro, ammalatomi gravemente, fui rimandato in Italia. Una parte dei miei polmoni si era atrofizzata. In Italia la mia malattia non fu riconosciuta, e dovetti girare da un ospedale all'altro. Dopo tante visite mediche, finalmente venne riconosciuta la mia malattia: i miei polmoni si erano danneggiati a causa delle polveri e dell'aria irrespirabile delle miniere. Ancora oggi ho bisogno di usare la mascherina di ossigeno
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Testimonianza di un emigrante

A 32 anni sono emigrato ad Hannover, una città tedesca a 150 Km da Berlino. Partimmo da Banzi in 13 e a Potenza, all'Ufficio Emigrazione, si aggiunsero 2 di Pietragalla. Qui ci comunicarono che la Germania richiedeva operai. Io scelsi di lavorare in una fabbrica di mattonelle perchè pensavo che fosse un lavoro più leggero. Invece si trattava di lavorare in una fornace che fabbricava mattoni da 6 Kg l'uno. Ero in una squadra di 9 operai: 6 infornavano e 3 sfornavano. Era una catena di montaggio, bisognava essere svelti perchè le carriole vuote erano subito pronte. All'inizio non riuscivo neanche a mangiare tale era il dolore alle braccia non allenate. Mi aiutava un olandese che mi trattava come un fratello tanto da prendere molto spesso il mio posto. Guadagnavo tanto ma il lavoro, vicino al forno ad alta temperatura, era faticoso e speso le fiamme uscivano fuori. Era un lavoro stagionale perchè durava 9 mesi all'anno: da marzo a novembre. I mesi invernali venivo a trascorrerli qui a Banzi perchè la fabbrica era chiusa. Ho lavorato lì dal 1960 al 1967, per 7 anni. Ricordo perfettamente il primo anno di lavoro: dormivo con altri 3 compagni in una stanza su dei materassi fatti di sacco imbottito di paglia dura (stoppe). Il bagno, senza acqua corrente, era distante dalla casa che era di proprietà del padrone a cui pagavo un affitto di 18 marchi. Per mangiare bisognava far la fila davanti a 2 fornelli della cucina comune. Stanchi di queste condizioni, dopo mesi di lavoro, decidemmo di scioperare (sia noi banzesi che gli altri operai). Quel giorno arrivò la Polizia, il Consolato, la Commissione internazionale. Il 17% dello stipendio che ci spettava, non ci veniva pagato. Dopo quella protesta, la situazione migliorò: io stesso andai con il camion a ritirare materassi nuovi dal Consolao; i bagni furono attrezzati con acqua corrente e docce; la cucina si riempì di fornelli lungo i muri perimetrali; ci fu aggiunto il 17% sulla busta paga e ci fu pagato anche tutto l'arretrato. Ricordo con piacere le gite che la ditta gratuitamente ci offriva a fine settimana: andavamo con un traghetto ad Amburgo. Nel 1967 tornai a Banzi perchè la fornace chiuse i battenti. 5 anni più tardi emigrai in Francia per scarsità di soldi. Facevo il manovale. C'erano algerini, tunisini, spagnoli e portoghesi. Vi rimasi 19 anni. 

Una bambina emigrata con la famiglia

Sono partita all'età di 10 anni, e sono rinasta fino al 1992. In famiglia eravamo in tanti, mancava il lavoro. Perciò fummo costretti ad emigrare. E' stato molto difficile lasciare i miei amici d'infanzia. In Francia non conoscevo la lingua ed ero un po' disorientata. Anche a scuola avevo difficoltà, perchè c'erano sistemi di apprendimento diversi. All'inizio era molto difficile: il modo di vivere, la lingua, il contatto con la gente. Appena ebbi finito la scuola, divenni operaia, e poi commessa in un supermercato. Lavoravo dietro un bancone di formaggi. Un giorno un cliente mi chiese di consigliargli un formaggio di mio gradimento. Io gli risposi: "Il parmigiano". Lui scoppiò a ridere perchè gli avevo consigliato un formaggio Italiano.

Intervista ad un emigrante

Sono emigrato in Svizzera per la mancanza di lavoro qui in Italia. A quei tempi i mezzi di trasporto erano molteplici: in treno (per andare in Francia, in Svizzera e in Germania) e con la nave (per emigrare verso l'America). Sono partito da Banzi in treno. Il treno era fatto in legno, con molti vagoni, ed era lunghissimo. Il viaggio è stato molto lungo: c'erano degli emigranti con me, in cerca di lavoro, per guadagnare qualcosa. A quei tempi c'erano i posti solo per fare i lavori più umili, e se un emigrante non riusciva a trovare lavoro, chiedeva aiuto alla Polizia o ai Carabinieri. In Svizzera, se ti vedevano che stavi sempre in piazza, al bar o in giro, ti portavano alla frontiera e ti rispedivano in Italia. Io ho fatto il manovale. Ho trascorso 14 anni in Svizzera e ho guadagnato abbastanza per poter costruire la casa in cui abito. Io abitavo in una baracca con molte stanze. Vi erano molte persone, ognuno con una propria branda. In Svizzera trascorrevo la giornata così: alle sei della mattina veniva il padrone a svegliarci e tutti ci preparavamo la colazione e mangiavamo fino alle sei e mezza. Dopo aver fatto questo, o ci facevano lavorare in un cantiere o ci facevano fare i muratori. Alle 13 tornavamo alla baracca e ci preparavamo il pranzo. Giocavamo un po' a carte e alle 20 andavamo a dormire

 




 

 
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